Villalba
si raggiunge abbastanza agevolmente da Caltanissetta
procedendo sulla s.s. 122 in direzione di San Cataldo.
Sfiorata la cittadina sancataldese, si procede lungo la
provinciale per Marianopoli e superato anche quest'ultimo
centro abitato ci si immette sulla s.s. 121 fino al bivio
per Villalba e Mussomeli. Procedendo in direzione del
primo centro si arriva in paese dopo circa 7-8 km. Il
tragitto permette di ammirare la sagoma di Cozzo
Pirtusiddu (m. 891), il monte più alto della Provincia
nissena.
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Azienda Provinciale Turismo di Caltanissetta
Villalba è
un piccolo paese nel centro della Sicilia nella provincia
di Caltanissetta. Come altri paesi di questa zona è sorto
nel cuore del feudo intorno alla fattoria padronale. ll
paese, in sensibile pendio, sta a specchio delle Madonie
che si innalzano al di là di Polizzi Generosa. Tutto
attorno alle case spazia l'occhio sulle terre del feudo
Miccichè.
Micciché a nome arabo (Mikiken) e il feudo è menzionato
con suo nome originario in un diploma del 1175, con il
quale, dirimendo una controversia tra il vescovo di Cefalù
e la nobildonna Lucia Cammarata, si riconosceva a quest'ultima
la signoria del feudo. Si giungeva allora al feudo di
Mikiken o dalla trazzera che da Karsa Nube (oggi
Castronovo) e Rakalsacca (pietre Cadute) porta verso
l'alveo del fiume Platani, fino a Racalmincer (Regalmici),
da dove per la trazzera di Yale (Alia) per Kassaro o
baronia di fontana Murata, fino al feudo di Rakalial, oggi
Regaliali.
Le due strade, a forma di ipsilon, si congiungevano al
casale di Mikiken, e ancora oggi si congiungono a Villalba,
perché le odierne strade sono state ricavate sulle tracce
delle antiche trazzere: da Villalba, per i feudi di
Turrumè, Tudia, Kibbò, Xirbi si giungeva e si giunge
tuttora a Kalata-Nissa, l'odierna Caltanissetta.
Secondo le attendibili notizie fornite dallo storico
nisseno Giovanni Mule Bertolo, il primo signore che popolò
le terre di Micciché, estese 1900 salme (4250 ettari
circa), fu don Nicolò Palmeri Calafato, il quale acquistò
la baronia da Domenico Cor-vino Caccamo, barone di
Villanova.
Le prime case del paese vennero costruite nel 1763 e le
carte più antiche dell'archivio parrocchiale, circa
nascite e morti sono dell'anno 1785
Nel censimento del 1795 il paese di Villalba e popolato da
1018 abitanti, saliti a 4380 nel 1898.
Unica risorsa del paese e l'agricoltura, che i villalbesi
esercitano anche nei feudi di Vicaretto, Belice,
Centosalme, Casabella, Mattarello e Chiapparia, in
prevalenza come braccianti o mezzadri.
Il contratto di mezzadria, agli inizi di questo secolo,
era ancora concepito in termini assolutamente vessatori e
feudali. Il colono nel primo anno preparava la terra a sue
spese, concimandola con stallatico nella quantità minima
di 25 carichi (circa 35 q.li) per tumulo di terra (14
are), e la seminava a legumi (fave o lenticchie) e il
prodotto era tutto a suo beneficio. Se il proprietario
aveva anticipato le sementi, aveva diritto al rimborso con
l'aggio di 5 tumuli per salma (32%). Il secondo anno la
terra veniva seminata a grano e il prodotto veniva diviso
in parti uguali tra colono e proprietario. Quest'ultimo,
con i suoi campieri, prima di operare la divisione,
procedeva ai "prelievi" di diritto e di consuetudine.
Anzitutto venivano prelevati i diritti spettanti al
proprietario, e cioè le sementi maggiorate del 32% (che
veniva prelevato dalla quota del mezzadro); il secondo
"prelievo" era costituito dalla cosiddetta "dote della
terra" o terragiuolo, consistente in un canone minimo di 1
q.le di grano per ettaro di terra, anche esso interamente
a carico del mezzadro, poiché l'anno prima il proprietario
non ne aveva avuto alcun utile; terza sottrazione quella
per la cassa di ricchezza mobile, quarta la manutenzione
del selciato delle stradelle. Quindi si prelevano 2 tumuli
di grano per ogni salma di terra (2,23 ettari) da
destinare ai campieri, 1 tumulo per la lampada della
masseria, mezzo tumulo per fare la "cuccia" (il grano
bollito che si consumava per la festa di S. Lucia) e 1
tumulo per la santa Chiesa e i monaci del convento.
A rendere ancor più misere le condizioni dei contadini, si
aggiungevano inoltre i dazi e i balzelli che gravavano sul
prodotto e sul bestiame.
Da un bilancio del consiglio civico del comune di Villalba
dell'anno 1812 si rileva che il dazio sul frumento era di
2 tari e 10 grani L. 1,06) sopra ogni salma di frumento
(224 Kg); su ogni salma di orzo, fave o legumi di 1 tari e
10 grani (L. 0,45); per "ogni testa di cavallo, bue, mulo
e vacca (eccetto i seguaci)" di 2 tari e 10 grani; per
ogni asina di 1 tari e 15 grani; per ogni 100 capre o
pecore di ó tari; e di 2 grani per ogni capo di carne
macellata.
La storia civile di Villalba registra tutta una serie di
ribellioni popolari, con le quali i contadini si
sollevarono contro il barone e la mafia per strappare un
miglioramento dei patti agrari e con esso una più umana
condizione di vita.
Queste ribellioni cominciarono a verificarsi dopo
l'abolizione della feudalità, nel 1812. Furono alla testa
dei contadini, giovani intellettuali della nuova piccola
borghesia di Villalba.
Il primo moto rivoluzionario di cui abbiamo notizie a del
1820 e fa seguito ai moti del luglio di Palermo; il popolo
di Villalba tenta l'assalto alla casa di Don Nicolò
Palmeri Morillo, barone di Micciché e marchese di Villalba,
il quale pota a stento salvarsi la vita. Mule Bertolo cosi
descrive l'episodio nella "Storia di Villalba": "Un gruppo
di gente perversa, la quale nei ricchi non vede che i
partigiani dell'aristocrazia, assalta il Palmeri, che non
perde la vita grazie al suo segretario, G. Liberti, uomo
dalle forme gigantesche, il quale devia un colpo di
fucile, sparato al petto del marchese di Villalba".
Nel 1848, ancora in occasione del moto rivoluzionario di
Palermo, i contadini di Villalba insorsero al grido di
"viva Villalba; viva Palermo e viva Pio IX". Vennero date
alle fiamme le carte del regio giudice e si tentò invano
di bruciare i contratti di mezzadria del feudo Micciché
depositati nell'archivio di un notaio locale. I moti
furono soffocati nel sangue. L'anno 1849 registra ben 19
contadini morti ammazzati nelle campagne di Villalba a
opera di ignoti.
Nel 1860 manipoli di Villalbesi si aggregarono ai mille di
Garibaldi.
Di fatto, comunque, il paese di Villalba rimase lungamente
ad economia prettamente feudale, sotto il peso di
mezzadrie e concessioni assolutamente esosi.
La chiesa occupa il lato di fondo del rettangolo, e
davanti ad essa scende quella che si chiamava la via
Grande, ed ora è detta via Libertà. Il lato opposto della
piazza, quello da cui vi si entra per una delle strade
trasversali, la migliore, la centrale è occupata
simmetricamente, ai due lati, da due bar, con qualche
sedia davanti alla porta. Il lato maggiore, a monte
piazza, e costituito da due case, in faccia alle quali
altre due case chiudono il lato a valle: fra di esse
scende la via centrale, che si chiamava via del carcere e
ora si chiama via Vittorio Veneto. Tutte queste case sono
formate da un piano terreno, da un primo piano e da una
terrazza. Nel lato a monte, quello verso la chiesa è la
sede della Democrazia cristiana, nella parte che si
affaccia alla piazza; dietro di essa, nella parte che da
sulla trasversale via Crispi, e la casa di don Calò. Sullo
sl lato, la casa verso corso Caltanissetta è la Sede del
Banco di Sicilia. Poco più lontano, fuori della piazza, è
la caserma dei carabinieri.
Tutti i poteri mondani sono dunque affacciati su questi
tre lati: la politica, l'economia, la vita sociale, la
chiesa e la mafia. [...] Questa piazza a dunque come il
palcoscenico di un teatro di tragedia dove dall'alba alla
notte si mostrano i protagonisti: il popolo, i re, i
tiranni, gli uccisori e il coro, i servi e gli dèi, e
tutte le possibili vicende vi si consumano nei gesti e nei
simboli della vita quotidiana. [...]
Fu qui che il 16 settembre 1944 avvenne la famosa strage
di Villalba, che segno un momento importante all'inizio
del movimento contadino per la terra e la libertà. Nessuno
aveva ancora potuto mettere piede su questa piazza
interdetta. giorno era venuto a parlare Girolamo Li Causi.
Don Calò aveva acconsentito a che parlasse purché non
toccasse gli, menti della terra, del feudo e della mafia,
purché, soprattutto nessuno dei contadini venisse in
piazza ad ascoltarli. La piazza, era occupata dai mafiosi,
appoggiati in gruppo ai muri, o riuniti, con il nipote di
don Calò, davanti alla casa della Democrazia cristiana.
Don Calò stava in mezzo alla piazza, con un bastone in
mano; i contadini restavano fuori, lontani, nelle Ioro
strade, dietro le finestre o sulle porte. [...]
Li Causi è l'uomo più popolare di Sicilia. ll suo
coraggio, la sua figura, hanno un richiamo leggendario, la
sua parola tocca i cuori, poiché egli parla la lingua del
popolo, con conoscenza ed amore. Così, alla sua voce, i
contadini nascosti e atterriti sentirono come un impulso
che li spinse ad entrare nella piazza proibita, e Li Causi
cominciò a parlare, a quella piccola folla imprevedibile,
del feudo Micciché, della terra, della mafia. Dalla chiesa
madre lo scampanio del prete, fratello di don Calò cercava
di coprire quella voce. Ma i contadini lo ascoltavano e lo
capivano. "Giusto è - dicevano - binidittu lu latti chi ci
detti sa matri. Lu vangelu dici". Cosi essi rompevano il
senso di una servitù antica, disubbidivano, più che a un
ordine, all'ordine, alla legge del potere, distruggevano
l'autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio.
Fu allora che don Calò, in mezzo alla piazza, grido: "Non
è vero!". Al suo grido, come a un segnale, i mafiosi
cominciarono a sparare. Quattordici furono i feriti che
caddero, mentre Li Causi gridava: "Fermi, sciagurati,
concedo il contraddittorio!" Anche Li Causi fu ferito a un
ginocchio.
Fu questo il maggior episodio di quel tempo della lotta
contadina.
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